domenica 8 ottobre 2006

Storia di una rosa


C’era una volta una rosa che non credeva più nel vento.
Era successo molto tempo prima.
Quando la rosa era piccola. E silenziosa. E sola.
Perché non era una rosa di cespuglio, ma nemmeno una grande alta rosa solitaria.
Era solo una piccola rosa sola, perché il vento aveva trasportato il suo seme lontano, tra i tronchi degli alberi, in un giardino di città, tra la Germania e l’Africa.
La rosa era piccola e rossa, con spine delicate, con petali sottili come coralli d’aria, con foglie leggere come un arrivederci.
Cresceva piano piano, pochi centimetri da terra e i suoi vicini erano faggi e larici, un olmo, un tiglio, un timido nocciolo.
E fu proprio il nocciolo a portarle la notizia.
Era un mattino d’ottobre, faceva freddo, come quando l’inverno disfa l’autunno e avanza con il suo respiro di ghiaccio, per fare, per fare niente, per fare il vuoto.
La rosa tremava e guardava in su, guardava sempre in su perché aspettava qualcuno.
Questo per la rosa era l’amore: aspettare qualcuno.
Qualcuno che la sollevasse, qualcuno che la strappasse dall’umido della terra, dalla greve presenza degli alberi, dal pettegolio dei fili d’erba per portarla nell’azzurro, nel libero abbraccio di cielo-nuvole.
E aspettava e aspettava e aspettando non cresceva.
Fu proprio quel mattino d’ottobre che il nocciolo la avvertì:
“Oh, piccola rosa guarda: i tuoi leggeri piedi si stanno staccando dal terreno. Perderai la zolla e con lei la radura e con la radura la foresta. Ti perderai.”
“Che importa! – rispose scandalizzata la rosa – E’ un rapitore che aspetto, non uno zappatore o qualcuno che mi atterri, qualcuno che mi involi, qualcuno come… un azzurro manto, un soffio deciso, un suono di campanelli.”
“Allora è il vento che aspetti!” esclamò il nocciolo.
“Vento? V,e,n,t,o? – chiese la rosa – E’ dunque questo il nome del mio amato, di colui che solleva e strappa dalle abitudini, di colui che mi farà regina alata della solitudine?” ma questo lo chiese in segreto solo al suo piccolo cuore spinoso.
Non era una rosa simpatica, era cresciuta senza amici, di tentativo in tentativo si era costruita petali e spine e così era un po’ arrogante e molto ingenua, arroganti spine, ingenui petali.
Da quel giorno aspettò il v,e,n,t,o, il vento. E non arrivò nessuno.
Aspettava, aspettava.
E l’attesa rendeva caldo il cuore e freddo il corpo.
Osservava, cercava gli indizi e ogni fruscio era già un bussare e ogni rumore era già un richiamo e ogni scricchiolio un invito.
Ma nessuno arrivava, il bussare terminava nel becco di un picchio,il richiamo nell’ala di un merlo, l’invito non era che la fontana che cominciava a gelare.
E la rosa aspettava, aspettava.
Perdeva più tempo che poteva, perché ogni minuto perso era un passo che avanza verso l’amato.
E non si curava delle chiacchiere degli altri, dei coltelli delle parole, nemmeno dell’inverno che avanzava si curava, solo aspettava, aspettava.
E una notte le stelle seminarono nel cielo un percorso diverso, un sentiero che toccava la rosa in pieno petto.
Guardando in su la rosa vide il sentiero di un sorriso e volle raggiungerlo.
E così pregò: “Non ho più tempo per l’amato, non ho più tempo per l’attesa del vento, subito adesso voglio raggiungere l’aperto, bruciami cielo.”
E così intensa era la sua preghiera e così solo il suo cuore e così incapace di sollievo la sua febbre che quando ancora una volta nessuno arrivò, la rosa smise di credere nel vento.
Non nel nome del vento smise di credere, ma proprio nel suo arrivo, perfino nella sua esistenza.
E la rosa smise di aspettare, chinò piano piano la testa, la pioggia trafisse i suoi petali, il sole indebolì le sue spine, la rosa si sentì indifferente.
Imparò perfino a chiacchierare con l’erba, bevve senza comprensione la rugiada, ascoltò il nocciolo dire ai vicini: “Ah, la piccola rosa! Sembrava così appassionata. Ma è il vento che l’ha nata solitaria e è giusto che sia stato il vento a tradirla.”
E la rosa si addormentò.
Non sognò cavalieri, né abbracci di nuvole, né libero cielo; sognò solo piccole radici, un leggero profumo, i passi di un giardiniere: essere una rosa qualunque, non aspettare che piccole cure, non sognare l’amico dell’amore.
Era dicembre e dall’Africa si alzò il vento, il v,e,n,t,o, quello del deserto, il vento esperto, feroce che brucia le mani e la faccia, il vento che fa sorgere la sabbia, l’assassino di chi non vuole volare.
E come per caso, come per passeggiare, il vento raggiunse un giardino di città tra la Germania e l’Africa.
E come per scherzare, come per esercitare la sorprendente vista del vento, lasciò cadere lo sguardo sulla piccola rosa addormentata.
E vide, vide il sonno del suo grande amore, la stanchezza della sua infuocata attesa, la brevità della sua speranza, e senza amore né disprezzo la portò con sé, la scelse, solo perché era stanca e piccola e senza attesa, per questo la scelse.
E delicatamente la strappò dalla sua terra e con decisione la sollevò e non le permise nemmeno di salutare, anche addio era una parola troppo lunga da pronunciare.
E di volo in volo, sopra il mare, sopra le isole, sul continente, fino al deserto la portò, addormentata.
E così gentile era il suo sonno, così delicata la sua stanchezza che decise di farne una rosa del deserto, un’eterna rosa senza profumo tranne per l’amato.
E nel deserto infuocato si risvegliò la piccola rosa. Fermo batteva il suo cuore e il suo stupore percorreva tutta la sabbia, grano per grano fino all’orizzonte. E l’insperata vastità del cielo, il libero abbraccio, arrivato, possibile, finalmente?
E la rosa stupita: “Di cosa sono fatta?” chiese.
“Di niente, di vento.” Le fu risposto.
(Storia di una rosa, Chandra Livia Candiani)

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A volte sento nel cuore una felicità inspiegabile: non ne ravvedo il motivo scatenante, zampillo gioia come una fontana che guarda al cielo. Io ho un SOGNO, che è più di niente.